State per iniziare a leggere il nono numero della seconda stagione di Quattro Bit. In questa occasione ci soffermeremo a descrivere, mediante la lettura di alcune fonti d’epoca, uno dei luoghi più importanti per quanto riguarda la diffusione del videogioco in Italia, cioè la sala giochi.
Come ho già avuto modo di affermare in più occasioni, è sempre utile, analizzando il periodo in cui arriva il “divertimento elettronico” nel nostro Paese, fare una distinzione tra l’aspetto pubblico e l’aspetto privato del gioco, e vedere come le mode e le tendenze suggerite dal primo ambiente andassero profondamente a impattare sui desideri del secondo, cioè come le “conversioni da sala giochi” (o “da bar”) guidassero gli acquisti anche dei possessori di console.
Accanto a questo, è da notare lo sviluppo progressivo dell’interesse verso i “record”, cioè la realizzazione del punteggio massimo, imprese celebrate dalla rivista Video Giochi della Jackson per entrambi i settori. In particolare, a partire dal 1984, nei confronti dei “video-atleti” crebbe un interesse anche da parte della stampa generalista.
Tra i videogiochi più citati in questo periodo senz’altro ci fu il Nibbler della Rock-Ola, a causa dei numerosi record e tornei che ebbero anche un’eco internazionale e che sono stati descritti con efficacia qualche anno fa dal sito Retrogaming History. Lo speciale in due parti de La Stampa Sera che presentiamo oggi anticipa però il record mondiale di Enrico Zanetti: gli articoli della giornalista Eva Ferrero vennero infatti scritti all’indomani del punteggio di 577.114.420, raggiunto da Massimo Di Maggio a fine aprile di quell’anno.
Se nella prima parte Ferrero presentava le dinamiche tipiche della sala giochi e alcuni commenti degli esperti (come da prassi dell’epoca) sulla solita domanda “i videogiochi fanno bene o fanno male?”, nella seconda estendeva l’analisi al fenomeno nel suo complesso, presentando anche una rara testimonianza della CDA di Torino e del suo presidente, Giuseppe Giunta.
Insisto quindi su quanto sia importante preservare e catalogare queste fonti primarie, affinché si possa in futuro descrivere con efficacia l’effettiva evoluzione del videogioco in Italia: affermare questo significa insomma notare quanto ci sia ancora da fare e quanto sia prematuro, oggi come oggi, tentare di mettere in forma scritta una presunta storia definitiva, se centinaia (se non migliaia) di fonti ancora attendono di essere reperite e portate alla luce.
Come nota a margine, segnalo che il videogioco giapponese indicato con preoccupazione da Ferrero era Lover Boy della Global Corporation Tokyo, che però rappresentava davvero un caso limite in una realtà che invece sappiamo essere del tutto equilibrata e priva di eccessi. Quindi è possibile inserire a posteriori anche questo accenno nel clima da “panico morale” tipico del periodo.
Con duecento lire sei Superman
La mano destra ancora gonfia e piena di vesciche a furia di "smanettare" sul videogioco. Massimo Di Maggio, 20 anni, campione italiano con 577.114.420 punti totalizzati al "Nibbler" in 26 ore, dal titolo appena conquistato non sembra davvero essersi fatto montare la testa: «Venerdì mattina mi sono messo a giocare così, tanto per fare una partita», assicura con un'alzata di spalle, «non era mia intenzione stabilire un record. Poi, visto che continuavo a vincere, ho voluto vedere fino a che punto sarei arrivato».
Sia chiaro: lui non è un "patito", sottolinea. È la musica, invece, la passione di Massimo: «Ho sempre fatto il barista, ma suono la chitarra da quando avevo sei anni. Purtroppo non sono mai riuscito a sfondare. Magari questa storia mi servisse! Invece rimedierò un viaggio a Las Vegas, se faranno le olimpiadi. Ovviamente non ci sputo, ma ho altri interessi».
E su un viaggio a Las Vegas forse non sputerebbero nemmeno le centinaia di ragazzi che ogni giorno entrano ed escono dalle sale gioco torinesi. L'altra sera, nel bar del record in via San Secondo, l'accanimento su leve e pulsanti era frenetico: due stanzoni illuminati soltanto dalle luci colorate degli schermi, fumo da tagliare col coltello, un amalgama sonoro di voci extraterrestri e musichette spaziali e duecentocinquanta ragazzi intorno al video.
Sigaretta a penzoloni dalle labbra, capelli negli occhi, chi gioca è concentratissimo, impreca, esulta. Gli altri fanno il tifo. «Congratulations! You win, extra man» lampeggia lo schermo e, in fondo, farsi dare del superuomo costa solo duecento lire. Ma quanto spendete in una sera?
«Duemila, tremila quando va bene», dice François, 17 anni, tutto tasche, energia e brufoli, sbatacchiando la macchina. «Quando va male anche il doppio. Se vai a vedere Lino Banfi costa uguale. Accidenti, il bastardo d'un missile m'ha fregato. Non distrarmi».
Non distraiamolo. Sta verificando le sue capacità individuali. Perché, secondo i sociologi, è proprio nell'individualismo e nella solitudine cui costringe la società di oggi che bisogna cercare le ragioni di questo "videogioco quindi sono" dilagante. Moda a parte, ovviamente.
«Col videogame si può interagire», spiega il professor Marletti, docente di sociologia della conoscenza all'Università di Torino. «È una specie di surrogazione del rapporto con gli altri, che a volte manca. Il rischio è quello di arrivare a comportamenti solipsistici, alla dipendenza patologica dal gioco o alla passivizzazione. Ma non demonizzerei i videogames: in fondo viviamo in un mondo sempre più ricostruito e i videogiochi sono un addestramento a muoversi in una realtà simulata. Stimolano la competitività individuale e il fatto non mi pare così negativo, perché se non sei competitivo oggi sei disadattato».
In definitiva, però, per Carlo Marletti il discorso si risolve nell'ambito della moda: «Negli Anni Sessanta la gente faceva a gara a stiparsi nelle cabine telefoniche: a Londra erano riusciti a entrarci in venti. Adesso si finisce sul Guinness coi videogiochi. Passerà anche questa».
Già. Il computer fa parte del nostro futuro immediato e forse, tempo un paio d'anni, ai videogames nessuno farà più caso. Ma, a volte, il fenomeno assume dimensioni di una violenza inquietante. C'è per esempio un giochetto in cui l'uomo cacciatore insegue due donne: conquistata la preda, luce rossa lampeggiante, scena di stupro e migliaia di punti totalizzati. Il game è arrivato in Germania dritto dritto dal Giappone ed è stato immediatamente proibito, ma parte che in molti pensino di produrlo clandestinamente.
«Qui entra in gioco la funzione genitoriale, di controllo, che la società deve esercitare» dice Piero Amerio, professore di psicologia sociale in via Sant'Ottavio. «Forse lo stesso compito degli educatori oggi è più difficile, ma il problema non si risolve bruciando le macchinette. Il dato positivo dei videogames, comunque, è che aiutano a prendere confidenza con la simulazione, allenano a prestazioni visivo-motorie più rapide, con un miglioramento dell'abilità percettiva. Negativo è invece, dal punto di vista psico-sociale, giocare da soli. Ma la psiche umana è in grado di sopportare molte cose...»
Trecento miliardi ruotano intorno ai videogames
L'industria americana dei videogames, nel 1983, ha fatturato quindici mila miliardi di dollari: un business tre volte superiore a quello dell'industria cinematografica. Basti pensare che il gioco più gettonato negli Usa, il "pac man", a botte di venticinque centesimi per volta ha triplicato l'anno scorso gli incassi di "Guerre stellari".
Gli esperti d'oltreoceano sostengono però che, laggiù, la moda del videogiochetto sta passando. Alcune case produttrici sarebbero addirittura in difficoltà, causa un mercato ormai inflazionato da pinguini, serpenti, aeroplanini e missili in lotta elettronica fra loro: i produttori non saprebbero più cosa inventare e il pubblico, da parte sua, sarebbe stanco di sfidare macchine di cui conosce ormai troppo bene reazioni e tempi di risposta.
Quando ci si appropria dei meccanismi, dicono gli psicologi americani, la sfida non è più sfida. Il gioco diventa noioso e ogni interesse svanisce. A meno che scatti l'idea del record: quello mondiale, infatti, a tutt'oggi è detenuto da un giovane "yankee" rimasto incollato al videogame per sessantacinque ore di fila.
In Europa, invece, la videomania è appena agli inizi e l'Italia, nel suo piccolo, ha registrato l'anno scorso un giro d'affari di trecento miliardi di lire (dodici volte quello dei juke box). Dalle Alpi alla punta dello stivale, in duemila sale gioco e sessantaquattromila bar sono distribuiti oltre trecentomila videogames e la Penisola brulica di giovani aspiranti al titolo di campione nazionale. L'altro giorno, a Verona, Roberto Ferrarini, 19 anni, disoccupato, ha tentato di battere il record (28 ore) del torinese Massimo Di Maggio, ma alla venticinquesima ora è miseramente caduto: «Ritenterò», ha commentato, «tanto non ho nulla da fare e posso allenarmi».
A Torino, le sale sono una decina. Fra le più grosse, quella di piazza CLN, con un'ottantina di macchinette, quella di via Galliari, settantacinque videogames, di via San Secondo, cinquanta, e via Stradella, pure cinquanta. Si calcola che vi si avvicendino, nei giorni feriali, un paio di centinaia di ragazzi. La domenica e i festivi il numero raddoppia. Quanto alle ragazze, sembra costituiscano il trenta per certo di questa piccola folla di videomaniaci, ma aumenteranno: la competitività, dice il sociologo, fa parte dell'uomo come della donna.
E a Torino abbiamo una delle maggiori case produttrici di games (in Italia sono una ventina). È la CDA Electronic di via Paruzzaro, una società che costruisce qui mobiletti ed elementi di comando, li correda delle schede importate direttamente da Usa e Giappone e poi vende il videogame completo, sia in Italia che all'estero (la CDA esporta in tutta Europa, in Turchia e in Canada).
Quanto costano i gioiellini? Quelli più a buon mercato sui due milioni e mezzo, quelli al laser, ultima fantascientifica invenzione, arrivano ai quattordici. Ai prezzi, naturalmente, va aggiunto il 38 per cento di Iva. Una volta fatta la spesa iniziale, però, con un milione e mezzo (sempre più Iva 38) si può comprare la sola scheda del gioco e sostituirla. Esattamente come fanno i distributori. I titolari dei locali, invece, che le macchinette si limitano ad affittarle, si sobbarcano soltanto le spese dell'energia elettrica, tenendo per sé il quaranta per cento degli incassi.
Ma esiste, in Italia, una forma di controllo sui videogames? Come no: si chiama Sapar (Sezione apparecchi pubbliche attrazioni ricreative), ha sede a Roma, è collegata all'Agis: raggruppa produttori, distributori e noleggiatori e veglia sulla "pulizia" e sulla moralità dei giochetti.
Giuseppe Giunta, presidente della CDA, ne è consigliere nazionale: «Esercitiamo un'azione volta a evitare il diffondersi di videogiochi proibiti», spiega. «Esistono video d'azzardo, come il video-poker, che non sono ammessi, ma vengono prodotti o importati clandestinamente e poi distribuiti camuffati. E lo stesso vale per i games pornografici».
In Giappone e negli Stati Uniti, Paesi ormai inflazionati dai giochini "innocenti", sono proprio questi i videogiochi di maggior successo. Da noi, per il momento, li si trova soltanto nelle sale "molto esclusive" (sarebbero proibiti anche lì) e difficilmente varcheranno quelle soglie. Ma, si sa, le vie dell'abusivismo sono infinite come quelle del Signore.
Con la trascrizione integrale di entrambi gli articoli si conclude anche il ventunesimo numero (vol. 2, n. 9) della newsletter, inviato a 219 (+5) persone. Approfitto dello spazio finale ringraziando pubblicamente tutti i lettori che hanno risposto al mio appello e hanno apprezzato l’articolo precedente (quello su Alto Medioevo per Commodore 64), mettendo “mi piace” e condividendolo in giro per la Rete. Spero che anche la lettura di questo nuovo episodio vi piaccia altrettanto; come avrete notato, Quattro Bit attualmente ha assunto una forma bisettimanale, che (credo) ci accompagnerà fino alla fine della seconda “stagione” e alla pausa estiva. A presto!
Io credo che "You win, extra man", in un inglese un po' così, voglia dire che hai vinto una vita extra, e non, come dice il giornalista, "farsi dare del superuomo". Cosa ne pensi?
Su Nibbler e sul record italiano volevo segnalare il documentario americano "Man VS Snake" disponibile su Netflix. In cui una troupe segue McKay, l'americano detentore del record originale, mentre cerca di battere il record italiano di Enrico Zanetti, che resisteva dal settembre 1984.
Sinceramente è un film che da Italiano mi ha dato un po fastidio, vista la sufficienza con cui si parla dei nostri videogiocatori dell'epoca; ed in cui la veridicità del record di Zanetti viene costantemente messa in dubbio dagli americani nel documentario, fra cui uno dei fondatori di Twin Galaxies che si rifiuta di omologare il record.