State per iniziare a leggere il terzo numero della seconda stagione di Quattro Bit, inviato in via eccezionale il venerdì, dato che ieri (8 dicembre) era giorno di festa. In questa occasione proseguiamo il discorso iniziato la settimana scorsa, relativo alla comparsa dei personal computer nella vita quotidiana degli italiani, durante il 1979.
Se nell’articolo precedente si presentavano gli usi e le possibilità offerte dalla nuova “informatica”, stavolta rifletteremo invece sulle perplessità e le vere e proprie paure che sono sempre state legate all’affacciarsi di una nuova tecnologia.
Fu proprio nel 1979 che la redazione del GR3 RAI si interrogò su quale fosse il futuro della nostra realtà, cioè su come sarebbero stati quegli “Anni Ottanta” che si prospettavano all’orizzonte, sia per l’Italia sia per tutta l’Europa: da questo nacque una programma radio di due ore e mezzo, diviso in dieci episodi da quindici minuti ciascuno, andato in onda a fine anno.
I temi dei singoli episodi spaziavano dalla crisi energetica al problema dei trasporti, dalle politiche sul lavoro alla crescita incontrollata delle cosiddette megalopoli; una scelta non dissimile dalla serie di documentari “Verso il 2000” che avevamo presentato nella scorsa stagione della newsletter. Ciascun episodio conteneva un’intervista a un esperto in quel campo specifico, che analizzava la situazione e prospettava gli scenari futuri.
Ovviamente (dato che ne parliamo da queste parti), uno dei dieci temi trattati dal GR3 fu quello della microrivoluzione, ovvero della «rivoluzione provocata dall’introduzione dei microelaboratori». L’esperto contattato per parlare dell’argomento fu Christopher Evans, ed è per me l’occasione perfetta di presentare il professor Evans ai lettori di Quattro Bit, vista la fondamentale importanza delle sue analisi su quello che si stava delineando come il futuro dell’informatica.
Nato nel 1939, si specializzò in giornalismo scientifico e in studi psicologici, che lo portarono progressivamente a interessarsi di interazioni uomo-macchina e a occuparsi della divisione informatica del National Physical Laboratory britannico. Personalità affascinante e poliedrica, nel 1979 arrivò a pubblicare The Mighty Micro, libro che conteneva un’analisi approfondita dell’imminente rivoluzione tecnologica e delle previsioni divise in tre sezioni, cioè il futuro rispettivamente allora a breve (1979-1982), a medio (1983-1990) e a lungo termine (1991-2000), con un’ulteriore disamina sull’Intelligenza Artificiale.
Gli studi su The Mighty Micro generarono, oltre al libro, anche una serie di sei documentari televisivi, facilmente reperibili in Rete, che Evans purtroppo non fece in tempo a vedere conclusi, dato che morì a soli 48 anni poco prima dell’effettiva messa in onda. Una grande perdita per tutti noi e un grande peccato, poiché non ebbe modo tra l’altro di veder concretizzate molte delle sue ipotesi e previsioni, concepite peraltro in un momento in cui l’informatica personale era ancora nella sua primissima fase, ricca soprattutto di perplessità e di scetticismo.
Mi piacerebbe in futuro poter approfondire e analizzare il libro nella sua interezza (in caso, commentate a riguardo!), ma per adesso mi accontento di presentare le sue risposte ad alcune delle tipiche obiezioni di quel periodo, tratte dal Radiocorriere TV.
Nella nostra vita quotidiana è entrato un nuovo protagonista: il computer. Economico, di minimo ingombro, si adatta ai compiti più diversi. È orologio e calcolatrice, automatizza le macchine fotografiche, presiede al funzionamento dei motori automobilistici. E non è che l’inizio. Spiega il professor Christopher Evans del National Physical Laboratory, esperto di cibernetica:
«Sempre più lavori saranno fatti e nuove operazioni saranno controllate dai microelaboratori, ciascuno del costo di poche migliaia di lire. Si tratterà di lavori semi-specializzati, come l’impiego di macchine utensili, la verniciatura a spruzzo, il ritaglio di certe parti: tutte attività che al momento richiedono un addestramento particolare e un insieme notevole sia manuali che visive, ma tutte già a un livello facilmente raggiungibile dai microelaboratori. Ci sono invece altri lavori, come spazzare i pavimenti o tagliare i capelli, per i quali ci vorrà molto tempo prima che un microelaboratore sia in grado di eseguirli».
Molti temono che l’avvento dei computer avrà come conseguenza un’enorme disoccupazione, dato che la gente preferirà spendere meno e avere risultati migliori comprando per poche migliaia di lire un microelaboratore che può fare un lavoro a tempo indeterminato e senza chiedere un salario, invece di assumere gente per fare lo stesso lavoro.
«È un pericolo che si presenta subito ai nostri occhi. Ma è un errore di prospettiva. Non dobbiamo dimenticare che quello che stiamo considerando non è un fenomeno nuovo, ma semplicemente la fase finale di un processo che è in corso da almeno - diciamo - mille o duemila anni, o forse più. Ogni volta che una società ha acquistato una nuova tecnologia e l’ha impiegata, il risultato è stata una maggiore ricchezza e quindi, per conseguenza, corrispettivi sempre più alti per lavorare sempre di meno. Solo che questa volta le cose sono destinate a cambiare ad un ritmo tale che la gente non riuscirà a tenergli dietro, non riuscirà ad adattarsi, a rendersi conto di quello che succede. D’altro canto però si deve dire che tante volte si rischia di sottovalutare la capacità dell’uomo di sapere utilizzare il tempo libero per se stesso, insomma di sapersi godere la vita».
Questo significa che dovremo imparare o reimparare a divertirci. E i computer si occuperanno della scuola, dell’informazione. Riceveremo montagne di informazioni da tutte le parti, non sarà troppo? Non diventeremo tutti nevrotici?
«Be’, sì, è possibile. E in effetti non escluderei che gli anni ‘80 diventino uno dei periodi più difficili e più turbolenti della nostra storia. Vi entreremo con un sistema di valori in gran parte ereditato, dobbiamo dire, direttamente dal XIX secolo, e all’improvviso ci troveremo piombati in pieno XXI secolo, senza avere a disposizione un sistema di valori di ricambio su cui basarci. Tutto questo provocherà un’infinità di problemi. D’altra parte il mondo oggi è diventato troppo complicato perché gli uomini possano affrontarlo da soli. Così c’è questa evoluzione naturale delle macchine intelligenti che ci aiuteranno a districarci nelle situazioni più disperate…»
Queste riflessioni dell’apparentemente lontano 1979 assumono certo un nuovo e importante significato se vengono rilette oggi, in un momento storico in cui si parla con una certa apprensione (del tutto giustificata, peraltro) dell’impatto dell’IA sui lavori intellettuali e artistici, legati soprattutto alla produzione automatizzata di testi e immagini.
Si conclude così il quindicesimo numero (vol. 2, n. 3) della newsletter, inviato a 170 (+14) persone. La mia speranza, lo dico sempre, è quella di creare un ambiente rilassato, serio e piacevole per condividere con voi idee e approfondimenti su questi temi; ancor di più, costruire un ecosistema autosufficiente capace di sfuggire ai social network e ai loro ritmi. Se conoscete qualcuno interessato alla storia dei videogiochi e dei computer segnalategli quindi Quattro Bit, che può crescere solo grazie al passaparola. A presto!
È impressionante e illuminante come già alle porte degli anni 80 c’era gente che ci avevo visto benissimo. Persone che riuscirono a capire quanto la rivoluzione informatica avrebbe impattato il tessuto sociale della nostra civiltà. Il problema che ancora oggi persiste è che a livello socio-economico non si è ancora integrata e assimilata tale rivoluzione. È come se fossimo condannati a subire questa evoluzione, senza prenderne realmente coscienza e senza poterla regolamentare eticamente ed economicamente.
Articolo bellissimo.
Da semplice appassionato, è curioso notare come diverse menti illuminate abbiano saputo prevedere l'impatto dell'informatica "seriosa" sulla vita di tutti i giorni, ma praticamente nessuno abbia saputo prevedere l'impatto che avrebbe avuto l'industria dei videogiochi su quella dell'intrattenimento.
Oggi abbiamo un industria videoludica che fattura più di quella del cinema e della musica messe assieme. Eppure fin dall'avvento di Pong e per tutti gli anni settanta e gli anni ottanta, nonostante i successi di vendite di Atari prima e di Nintendo e Sega poi, quasi tutti gli studiosi e gli uomini d'affari dell'epoca sembravano convinti che si sarebbe trattato solo di una moda passeggera.
A tal proposito secondo me è emblematica la sfiducia totale del mercato USA nei confronti dell'industria, dopo il crash del 1983. Sfiducia che nonostante fosse smentita dai dati di vendita, in alcuni ambiti è rimasta per tutti gli anni ottanta e parte dei novanta. Penso in particolare al comportamento dei dirigenti di Commodore USA, che fondamentalmente hanno ignorato i consigli di Commodore UK rinunciando a tenere un piede nel mercato dei videogiochi per privilegiare quello delle macchine da lavoro.